Il Medico veterinario alla James Heriott, che vaga per le campagne dello Yorkshire dei primi del Novecento, non esiste più.
Di quella figura, circondata di animali di ogni taglia e specie, dalla grande rilevanza sociale e che tanto ha ispirato generazioni di veterinarie e veterinari non rimane che un’eco sbiadita e sognante.
Oggi la professione veterinaria, come tante altre, è profondamente trasformata: la pressione burocratica e fiscale è sempre più impegnativa, la comunicazione con i clienti stravolta per l’utilizzo ormai dilagante (e spesso maldestro) di strumenti di comunicazione digitale, l’evoluzione tecnologica in ambito diagnostico e chirurgico richiede aggiornamento costante.
Il dispendio energetico, da ogni punto di vista, è enorme.
Gli effetti e le conseguenze di tutto questo cominciano ad essere evidenti anche per le associazioni di categoria, lo dimostra l’aumento esponenziale di strumenti di assistenza psicologica, di eventi dedicati al tema del benessere dei veterinari. E delle veterinarie.
L’assemblea generale 2019 della Federation of Veterinarians of Europe (FVE) è stata dedicata proprio al tema del benessere all’interno di una professione che sta affrontando gravi criticità e cambiamenti epocali. Soprattutto per le donne.
Se nel 2018 rappresentavano infatti il 58% dei veterinari europei considerando tutte le fasce di età, nella fascia fino ai 30 anni superavano l’82%.
Eppure, nonostante l’enorme presenza femminile, la medicina veterinaria è ancorata in generale ad un modello più consono a chi non si assume la responsabilità e l’impegno di una casa e una famiglia da curare e gestire: orari lunghi, lunghissimi, separazione tra vita lavorativa e privata sempre più inconsistente, notti e festivi impegnati anche in modo imprevedibile.
Accendere un riflettore sulle difficoltà che lo stile di vita, di lavoro e i cambiamenti sociali e culturali impongono ai medici veterinari è un dovere. Non farlo contribuisce a peggiorare la situazione già allarmante in termini di sindrome da burnout certo, ma anche di digital sickness e cyber sickness di cui si parla troppo poco ma che per altre professioni sono già annoverate tra le malattie professionali.
Oggi anche l’aggiornamento passa attraverso gli schermi dei dispositivi mobili, complice l’emergenza Covid-19 certo, ma non solo.
I vantaggi sono non da poco, primo tra tutti il contenimento delle spese di viaggio, pernottamento, i costi di pranzi e cena, il mancato lavoro di intere giornate.
Sia per i docenti e relatori che per i partecipanti.
Eppure stiamo ulteriormente peggiorando le nostre condizioni di vita: anziché scegliere di organizzare alcune giornate di lavoro in modo da poter dedicare un paio d’ore all’aggiornamento, che pure è un’attività lavorativa, chiediamo che gli eventi siano offerti in orario serale, meglio se dopo le 21.
La scusa è quella di non perdere due ore di lavoro, eppure quando l’aggiornamento era in presenza riuscivamo a perdere giornate intere e ad impiegare risorse economiche per viaggi, vitto e alloggio.
Quindi è evidente che il motivo non può essere davvero quello.
Dobbiamo cominciare a guardare con attenzione alle scelte che facciamo, a come continuiamo ad erodere il poco tempo libero che per diritto ci appartiene, che dovremmo condividere con gli individui della nostra e di altre specie che consideriamo famiglia.
Tempo ed energia sono le risorse più preziose che abbiamo, nessuna delle due è infinita e la cura e il mantenimento della nostra energia personale richiede impegno su tutti i fronti: energia fisica, mentale, emozionale e spirituale sono le componenti fondanti e nessuna può sostituire o compensare l’altra.
Cosa stiamo facendo per coltivarle? Che scelte stiamo compiendo per alimentarle? Quanto ci rendiamo conto che le decisioni che prendiamo quotidianamente influiscono così tanto sulla qualità della vita?
Proviamo a rifletterci un instante di più la prossima volta che ci chiedono con un sondaggio se preferiamo che un evento professionale occupi il nostro tempo privato…
dr.ssa Cinzia Ciarmatori